La pubblicità televisiva: aspetti linguistici e retorici degli spot a episodi
Giorgia Croce
Università degli Studi Roma Tre
E-mail: [email protected]
Donato Cerbasi
Università degli Studi Roma Tre
E-mail: [email protected]
Abstract
In this article we analyse from the rhetoric and linguistic point of view some spots belonging to the television advertising campaigns of a famous Italian coffee brand (Lavazza) and of a multinational mobile phone company (Vodafone). As regards the rhetoric analysis, we try to describe some characteristics of the protagonists of the spots (i.e. of the testimonials) that constitute their ethos, i.e. their credibility and personal appeal towards the audience. We consider also the relationships between the testimonials and the emotions and the psychology (i.e. the pathos) of the audience. At a more detailed level, we pay attention to the figures of speech which are typically used in the spots (mainly word games such as paronomasia, calembour and the like). As regards the linguistic analysis, we focus attention on the way of speaking of the testimonials and of the secondary characters and make some sociolinguistic considerations about the language varieties used (mainly the variety of Italian spoken in Rome, but sometimes together with other Italian varieties and even foreign languages). At a more detailed level, we describe some phonetic, phonological, grammatical and lexical phenomena which characterize the way of speaking of testimonials and of minor characters.
Introduzione
Questo articolo è il frutto della sintesi rielaborata dell’omonima tesi di laurea triennale in “Scienze della comunicazione”, discussa con successo da Giorgia Croce presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre il 5 maggio 2011. Del presente scritto l’introduzione è di Donato Cerbasi mentre il resto del testo è di Giorgia Croce.
L’oggetto del nostro studio è costituito da un tipo di pubblicità televisiva ben noto al pubblico del piccolo schermo, ossia dagli spot a episodi. Tali spot sono caratterizzati dal fatto che presentano alcuni aspetti di fondo costanti e ripetitivi, su cui si innestano variazioni sul tema che possono essere escogitate in maniera virtualmente infinita. Ciò consente di proporre agli spettatori una pubblicità che da un lato resta ben identificabile e riconoscibile e dall’altro non stanca e non annoia, suscitando anzi nel pubblico la curiosità e l’attesa di sempre nuove trovate ed invenzioni originate partendo dalle medesime costanti di base. Gli aspetti che si ripetono possono essere, oltre al prodotto, i personaggi primari (di solito i testimonial del prodotto stesso), una certa ambientazione, un determinato contesto spazio-temporale, uno slogan, mentre le variazioni possono essere rese possibili dall’introduzione di personaggi secondari di volta in volta diversi, da mini-trame continuamente rinnovate e da gag e battute di spirito generabili all’infinito. In questo modo la pubblicità a episodi diverte, attrae, intrattiene e riesce a ritagliarsi un vero e proprio appuntamento quotidiano col pubblico dei consumatori, sfruttando, su scala ridotta, le stesse logiche delle fiction televisive a episodi. Non è più una novità, del resto, il fatto che la pubblicità tenda ad imitare determinati generi televisivi o addirittura a configurarsi essa stessa sempre più come un vero e proprio genere televisivo, come fanno autorevolmente notare Grasso e Scaglioni (2003: 250). Anche per Arcangeli (2008: 56) la pubblicità a episodi, costituita da “set di storielle recitate dai medesimi personaggi in episodi in sé conclusi”, è un formato assai adatto alla televisione perché si ispira alla serialità di molti telefilm, dunque a un modello già ben presente e familiare alla mente dello spettatore.
Tra le serie di spot a episodi trasmesse negli ultimi anni dai canali televisivi nazionali, abbiamo scelto di soffermare la nostra attenzione su quella della compagnia telefonica Vodafone (col famoso calciatore Francesco Totti e sua moglie Ilary Blasi nel ruolo di testimonial) e su quella del caffè Lavazza (che ha come protagonisti due famosi personaggi del mondo dello spettacolo quali Paolo Bonolis e Luca Laurenti). Il nostro intento è quello di concentrarci sulle risorse di tipo retorico e linguistico che vengono più utilizzate in questo tipo di pubblicità e che consentono, tra l’altro, quelle continue variazioni sul tema che ne costituiscono l’aspetto più caratteristico. Proponendo come esempi alcuni episodi da noi scelti da entrambe le serie (Vodafone e Lavazza), cercheremo di mostrare come possa essere interessante e proficuo applicare a questi spot gli strumenti d’analisi della retorica e della linguistica, sia in senso lato che in senso stretto. Dal punto di vista della retorica in senso più generale faremo riferimento soprattutto al ruolo dei testimonial e agli aspetti di ethos e pathos che vengono messi in gioco, mentre per quanto riguarda l’analisi retorica in senso più stretto e tecnico ci concentreremo sulle figure retoriche che vengono tipicamente utilizzate in questo tipo di pubblicità (alludiamo alle figure di parola, in particolare alle figure di suono come le paronomasie e i calembour). Per quanto attiene alle considerazioni linguistiche più generali, commenteremo alcuni aspetti di sociologia del linguaggio che emergono negli spot, mentre da un punto di vista linguistico più tecnico menzioneremo precisi fenomeni di ordine fonetico/fonologico, grammaticale e lessicale che contribuiscono a realizzare gli effetti che gli spot si propongono di ottenere. Come si vedrà, entrambe le analisi, quella retorica e quella linguistica, si combinano e si incrociano e permettono di porre in risalto la notevole complessità che si nasconde sotto l’aspetto apparentemente banale di questi divertenti mini-episodi pubblicitari.
1. Totti e la Blasi negli spot Vodafone
Gli spot della Vodafone ci presentano i due testimonial, Francesco Totti e sua moglie Ilary Blasi, in un ambiente domestico, di solito in salotto o in camera da letto. L’ambiente domestico conferisce un senso di familiarità e di quotidianità che facilita l’identificazione del consumatore e spettatore con la coppia di testimonial. Assistendo alle scenette di volta in volta trasmesse, è un po’ come se lo spettatore potesse accedere in casa della famiglia Totti e curiosare nella vita privata della coppia; il grande campione di calcio e la famosa donna di spettacolo appaiono come “umanizzati”, cioè più vicini alla realtà quotidiana dello spettatore medio, e dunque più persuasivi nell’indurre chi li guarda a fidarsi dei prodotti e dei servizi proposti da Vodafone. Da un lato i due testimonial possono fare leva sulla propria grande notorietà e sul prestigio ottenuto grazie ai propri successi nei rispettivi ambiti professionali, dall’altro non appaiono come due divi irraggiungibili e avulsi dalla vita normale, ma come due persone alle prese con prodotti e servizi che pressoché tutti al giorno d’oggi devono scegliere, acquistare e utilizzare. Dal punto di vista della retorica classica, potremmo dire che i testimonial pubblicitari sono un po’ come degli oratori che cerchino di persuadere un pubblico facendo leva soprattutto su aspetti emotivi, ossia sull’ethos e sul pathos, che per Reboul (1996: 22-23) sono rispettivamente “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio” e “le tendenze, i desideri, le emozioni dell’uditorio, sui quali può far leva l’oratore”. Nella fattispecie, Totti e sua moglie assumono il carattere accattivante di personaggi celebri, di successo e nello stesso tempo familiari e alla mano, e fanno leva su aspetti emozionali del pubblico quali il desiderio di identificazione e il bisogno di essere consigliati da qualcuno che ispiri fiducia e simpatia. Certo, gli oratori antichi parlavano davanti ad un uditorio presente fisicamente in una piazza, mentre i testimonial odierni appaiono in scenette registrate che gli spettatori guardano in televisione ognuno nel proprio appartamento, ma taluni aspetti e processi della psiche umana e della sfera emotiva restano fondamentalmente costanti e, mutatis mutandis, tornano in gioco anche nell’era dei mass media, tanto più in un ambito come quello pubblicitario, dove i fattori emotivi sono decisivi nell’opera di persuasione del pubblico, come fa notare, tra gli altri, Testa (2004: 34).
Francesco Totti si presenta nelle scenette come un ragazzone tutto muscoli ma limitato dal punto di vista culturale e linguistico. Egli parla con marcata cadenza romanesca, ossia si esprime nell’italiano regionale di Roma, risulta comico quando tenta di esprimersi diversamente e ha difficoltà a comprendere i termini tecnici e gli anglicismi tipici del settore della telefonia: capisce sempre una cosa per l’altra e così in ogni spot si assiste a qualche nuova gag. Il celebre campione di calcio, utilizzando abilmente una grande risorsa retorica quale l’autoironia, riesce ad apparire simpatico anche allo spettatore non romano e/o non romanista, che gli sarebbe potenzialmente ostile (ossia potrebbe avere un pathos non in sintonia con l’asso romanista). In un Paese come l’Italia, contrassegnato da campanilismi e regionalismi e da irriducibili rivalità calcistiche, un personaggio così fortemente caratterizzato sia dal punto di vista sportivo che da quello linguistico potrebbe risultare controproducente come testimonial in una campagna pubblicitaria a livello nazionale, ma evidentemente non è così, grazie proprio all’autoironia, che stempera l’eventuale antipatia altrui, e grazie anche al fatto che Totti, oltre ad essere una bandiera della Roma, è stato a lungo anche un calciatore della Nazionale. Quanto all’autoironia, del resto, Totti ne aveva dato già prova nel 2003 con il libro uscito da Mondadori e intitolato significativamente “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Ma forse ancora più decisiva negli spot è la presenza accanto a lui della deliziosa moglie, da cui egli si lascia bonariamente correggere e rimproverare dopo ogni strafalcione linguistico in cui incorre. Ilary Blasi, che può piacere alla generalità degli spettatori senza distinzioni regionali o di tifoseria, riequilibra la situazione e anche dal punto di vista linguistico svolge un ruolo essenziale nella dinamica degli spot: anche il suo modo di parlare, infatti, non è esente da tratti romaneschi, ma a differenza di suo marito ella sa esprimersi anche in buon italiano e comprende agevolmente i termini tecnici, cavandosela per di più egregiamente anche con le parole e le espressioni straniere. In fondo Totti e la Blasi, con il divertente contrasto che caratterizza ogni loro apparizione nelle scenette pubblicitarie, danno anche una piccola, continua lezione sociolinguistica: non è tanto il dialetto o l’italiano regionale in sé ad essere inferiore rispetto all’italiano standard, ma è la limitatezza del proprio repertorio linguistico ad un solo idioma o addirittura ad una sola varietà di una certa lingua (nella fattispecie, l’italiano di Roma parlato da Totti negli spot) ad essere svantaggiosa rispetto all’ampiezza di un repertorio che comprenda più varietà linguistiche e più lingue e che contempli anche la capacità di servirsene in maniera di volta in volta appropriata e flessibile a seconda della situazione e degli interlocutori. Da questo punto di vista, la Blasi rappresenta negli spot un modello positivo anche dal punto di vista linguistico, e il fatto che sia una donna a svolgere questo ruolo aprirebbe un’altra interessante tematica come quella del genere sessuale nella pubblicità, che esula dal presente lavoro ma per la quale ci piace rimandare a Sinzu (2006).
1.1. Totti non conosce Internet
Nel primo spot che prendiamo in considerazione Totti esordisce affermando: “Io di internet non ci capivo molto”. A riprova di tale sua ignoranza, lo vediamo in un flashback mentre chiede alla moglie: “Che ha fatto ieri l’internet?”, dimostrando di non conoscere neanche il significato della parola, scambiata, evidentemente per deformazione professionale, con il nome della squadra di calcio dell’Inter. Subito dopo si vede Totti che si rigira tra le mani un computer portatile chiedendosi: “Non ce l’ha un titolo ‘sto libro? Non c’ha neanche ‘e paggine?”. Poi la moglie pazientemente gli mostra una chiavetta per l’accesso a internet: “Questa è la internet key”. E lui: “Chi?”. La Blasi: “La internet key!”. E lui ancora: “Ma chi?!”, guardandosi intorno, mentre la moglie scoraggiata conclude: “Se, ciao…”. Lo spot termina con Totti che esclama: “Internet per Totti” e la moglie che lo corregge: “Per tutti!”, dandogli la scatola della Vodafone in testa.
Si noti che gran parte delle gag dello spot scaturiscono da giochi di parole, ossia consistono in figure retoriche di parola, in particolare figure di suono, che permettono l’accostamento inusitato e comico di significati completamente diversi grazie alla somiglianza o all’identità fonetica dei significanti. Così, come abbiamo visto, Totti confonde “Internet” con “Inter”, la parola inglese “key” con la parola omofona italiana “chi” e il proprio cognome, “Totti”, con la parola “tutti”, generando con quest’ultima figura lo slogan che conclude efficacemente lo spot. Le figure di suono sono le figure retoriche a più alto contenuto linguistico e ricorrono spesso in questo tipo di pubblicità, perché i giochi di parole, essendo una fonte inesauribile di battute e di comicità, aiutano molto ad ideare episodi sempre nuovi, con gag ogni volta diverse. Nell’episodio Totti, come sappiamo, si esprime in un italiano con forti tratti romaneschi, sia per quanto riguarda la fonologia che la grammatica, come si può evincere anche da una sua singola frase: “Non ce l’ha un titolo ‘sto libro? Non c’ha neanche ‘e paggine?”, dove si rilevano la pronuncia “paggine” (con l’affricata palatale sonora raddoppiata in posizione intervocalica), il dimostrativo aferetico “’sto” (in luogo di “questo”) e l’articolo determinativo “’e”, parimenti aferetico (in luogo di “le”). La sua limitatezza linguistica fa il paio con la ristrettezza della sua cultura, mentre sua moglie, pur esprimendosi all’occorrenza anche alla maniera romana (dice “Se, ciao…”, usando “se” al posto di “sì” e pronunciando “ciao” con la consonante iniziale resa come una fricativa palatale anziché come un’affricata palatale), dimostra una padronanza completa e flessibile degli argomenti, della terminologia e delle lingue.
1.2. Totti a lezione di inglese
In un altro spot Totti è alle prese non con la moglie, bensì con una professoressa di inglese, la quale gli indica un tipo di telefono cellulare che è sul tavolo e cerca di insegnargli l’espressione inglese che lo designa. Ella dice: “Smart phone”, con impeccabile pronuncia inglese, ma Totti naturalmente non capisce e risponde: “Fon, quello pe’ i capelli!”, rimediando una bella bacchettata sulla mano. Anche in questo caso il perno del carattere comico dell’episodio è una figura di suono, che sfrutta stavolta la somiglianza tra la parola inglese “phone” [foun] e la parola italiana “fòn”, cioè l’asciugacapelli. Nello spot precedente si faceva leva sull’omofonia tra la parola inglese “key” e la parola italiana “chi”, mentre qui il gioco di parole è più complesso e sottile: dal punto di vista fonetico si tratta di una quasi omofonia, perché la parola inglese “phone” si differenzia dall’italiano “fòn” per la vocale, ma il modo in cui tendono a pronunciarla molti italiani che non conoscono bene l’inglese la rende più simile a “fòn”, sicché l’errore di Totti appare un po’ meno immotivato: la professoressa pronuncia la parola inglese correttamente, ma egli la intende alla maniera in cui viene pronunciata da molti italiani e la reinterpreta come “fòn”. Più in generale, ci sembra di poter affermare che lo spot corrisponde efficacemente ad alcuni aspetti del pathos di gran parte del pubblico; da un lato, infatti, lo spettatore si sente gratificato dal fatto di conoscere l’espressione “smart phone” e di essere superiore in questo al personaggio ridicolo interpretato da Totti, dall’altro, vedendo il campione a mal partito di fronte ad un’arcigna professoressa di inglese, egli può identificarsi e provare un moto di simpatia e di solidarietà, visto che siamo un Paese che non primeggia certo per la diffusione e la conoscenza dell’inglese (e delle altre lingue straniere), sicché ciascuno può vedere riflessa ironicamente nella situazione di Totti nella scenetta la propria condizione di improbabile e maldestro anglofono.
1.3. Totti alle prese con lingue e dialetti
Nel terzo spot della campagna Vodafone che andiamo a considerare Totti ce la mette davvero tutta per superare i propri limiti linguistici, esibendosi in una sorta di fuochi d’artificio di espressioni in dialetti e lingue diverse, con esiti che, se non lo accreditano certo come provetto poliglotta, risultano sicuramente spassosi. Significativamente egli esordisce dicendo: “Io non ho mai parlato così in vita mia” e si vede subito a cosa si riferisca. Prima, infatti, egli si produce in un generoso tentativo di riunificare l’Italia, esprimendosi in napoletano e subito dopo in milanese. Il napoletano lo parla al telefono con la madre, alla quale dà notizie di Ilary: “Niente meno, mammà, Ilary sta ‘na bellezza!”; l’imitazione è ben fatta, anche nei dettagli fonetici, perché la parola “bellezza”, ad esempio, viene pronunciata con la vocale finale ridotta a vocale indistinta (o, più precisamente, vocale centrale mediana), proprio come fanno i napoletani e come raramente riescono a fare i non napoletani che cercano di parlare l’idioma di Totò. Il milanese, invece, Totti lo parla con la moglie, alla quale mostra degli oggetti ornamentali da lui stesso costruiti: “Uè, Ilary, te vis che roba?”. La Blasi gli chiede: “Ma li hai fatti tu?” e lui risponde affermativamente con l’esclamazione “Ciumbia!”, che vale pressappoco “accidenti!”, “urca!” e simili. Totti, dunque, nella sua veste di testimonial, fa delle incursioni al di fuori dell’ambito della propria romanità, strizzando l’occhio a spettatori di altre regioni e di altre aree dialettali e proponendosi come personaggio nazionalpopolare. Ma non si ferma qui, perché subito dopo lo vediamo per strada alle prese con delle turiste straniere che gli chiedono: “Excuse me? Sorry? Colosseo?”; Totti le saluta in latino (“Ave!”) e sempre nella lingua di Cicerone, accompagnando l’espressione con ampi gesti, dà loro l’indicazione per raggiungere il famoso monumento: “Vicinum est, ite, ite!”. Lo spot si conclude con Totti a letto che armeggia col suo cellulare e con la moglie accanto a lui che lo invita a smettere per non consumare troppo (“Dai, basta!”), al che egli la tranquillizza uscendosene con una frase in pseudo-francese: “Ma c’est gratis avec la ricarìc!”, che fa ridere la consorte. Esprimendosi in uno stentato latino con le turiste straniere, Totti fa dell’autoironia sul proprio livello culturale, esibendo una finta ed improbabile padronanza della lingua classica, e nello stesso tempo riproduce il tipico comportamento dell’italiano a corto di risorse linguistiche che, comunicando con gli stranieri, si fa capire più che altro a gesti. La battuta in francese maccheronico che chiude lo spot, poi, suggella l’autoironia sul proprio plurilinguismo velleitario, che può essere assunta dagli spettatori anche come autoironia collettiva sulla scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte di tanti cittadini.
2. Bonolis e Laurenti testimonial della Lavazza
I testimonial del caffè Lavazza sono Paolo Bonolis, conduttore di trasmissioni televisive di grande successo, e la sua spalla storica Luca Laurenti. Gli spot sono ambientati in uno scenario paradisiaco stereotipato, con uno sfondo chiaro dove nuvole bianche risaltano su un bel cielo azzurro. Questo scenario costantemente riproposto costituisce l’identità visiva della campagna pubblicitaria e facilita il riconoscimento degli spot da parte dello spettatore. Le scenette non hanno luogo in un ambiente domestico, come nel caso degli spot della Vodafone, ma in un paesaggio irreale che tuttavia è familiare all’immaginario dello spettatore, che è abituato a figurarsi il paradiso come una dimensione celestiale e luminosa. In tale dimensione Bonolis e Laurenti, spesso insieme anche al personaggio San Pietro, conversano amabilmente standosene seduti tra le nuvole e suggellano la propria beatitudine sorbendo una bella tazzina di caffè espresso. Tutti e tre i protagonisti sono vestiti di bianco e naturalmente San Pietro ha anche una lunga barba bianca. Sia Bonolis che Laurenti parlano con marcati tratti romaneschi, ma è Laurenti a fare la parte di colui che fraintende le parole, facendo così scaturire le gag ogni volta diverse che rendono possibile la varietà degli spot. Molto importanti per l’ideazione di spot sempre diversi sono poi i personaggi secondari, che cambiano di volta in volta e sono caratterizzati, come vedremo, in modi differenti anche dal punto di vista linguistico. Come nel caso della coppia Totti – Blasi negli spot della Vodafone, anche per quanto riguarda i due testimonial del caffè Lavazza la loro identità spiccatamente romana non inficia la buona riuscita della campagna pubblicitaria su scala nazionale. La comprensione delle battute che recitano non risulta difficoltosa, perché l’italiano regionale di Roma è massicciamente presente nel cinema del nostro Paese dalla stagione del neorealismo fino ai nostri giorni, come ricorda Rossi (2006: 189), e anche in tanti programmi televisivi trasmessi da canali nazionali (compresi gli stessi programmi, molto seguiti, condotti proprio da Bonolis e Laurenti), sicché quella varietà di italiano risulta ben familiare ai telespettatori di tutte le regioni. Certo, comprensibilità a parte, la parlata romanesca potrebbe risultare antipatica e sgradita a una parte del pubblico di altre regioni, specialmente del settentrione, ma evidentemente la romanità presentata in chiave comica e autoironica ispira una simpatia che prevale su una possibile avversione preconcetta. In altri termini, i due testimonial si avvalgono di un ethos che li fa apparire come due personaggi famosi e divertenti, i quali, grazie anche ad un’ambientazione ben riuscita, presentano il caffè espresso, la bevanda più amata e popolare in assoluto in Italia, come un piacere sublime e paradisiaco. Sia il genere di prodotto che pubblicizzano sia il riferimento leggero e spiritoso alla comune tradizione cattolica (il paradiso, il regno dei cieli, San Pietro) sono cose che uniscono un po’ tutti gli italiani e contribuiscono a far sì che i due simpatici testimonial siano in sintonia con il pathos (dunque con i gusti e le aspettative) della generalità del pubblico. Se così non fosse, del resto, campagne pubblicitarie di questo tipo non durerebbero tanto a lungo, sfruttando in abbondanza una formula che evidentemente funziona e risulta efficace nel promuovere realmente la vendita del prodotto in questione.
2.1. Lo spot con il cinese
Gli spot più interessanti dal punto di vista linguistico sono quelli in cui i due testimonial romani veraci interagiscono con qualche personaggio secondario caratterizzato dal fatto di esprimersi in modo diverso. Un buon esempio in tal senso è l’episodio in cui compare un cinese, facilmente riconoscibile come tale grazie ai tratti fortemente stereotipati del suo abbigliamento e del suo modo di parlare. Il finto cinese (è in realtà un attore italiano travestito) parla un italiano elementare, coi verbi all’infinito e con l’omissione degli articoli, e la sua pronuncia è tipicamente contrassegnata dal fatto che la vibrante apicale viene resa come una laterale alveolare (in parole povere: pronuncia la r come l). Egli cerca di dare da bere a Bonolis e a Laurenti un finto caffè Lavazza qualità oro dicendo: “Io offlile caffè… qualità olo!”. Spruzza sul caffè contenuto nelle tazzine un colore dorato e ribadisce: “Gualda: olo!”. A questo punto Bonolis replica: “Senti un po’, da ‘a Cina cor furgone, bevitela te ‘sta zozzeria!” e gli offre a sua volta un vero caffè qualità oro. Il cinese lo beve e, come se fosse subitaneamente riconvertito sia nei gusti che nell’idioma, esclama in romanesco: “Bbono, aho!”. La scenetta si conclude con Laurenti che chiede a Bonolis: “Ma questo da che terra viene?”. Bonolis risponde: “Cina” e Laurenti fraintende: “De Terracina?”, al che Bonolis esce di scena dicendo: “Basta, due contro uno nun ce sto!”. I tratti romani sono presenti a vari livelli del sistema linguistico, come esemplificato qui di seguito: fonetico (“bbono”, col raddoppiamento della consonante iniziale e la riduzione del dittongo “uo” ad “o”; “Terracina” pronunciato “Teracina”, con la vibrante apicale scempia); morfologico (il dimostrativo aferetico “’sta” in luogo di “questa”; la preposizione articolata “cor” invece di “col”); lessicale (“zozzeria” invece di “porcheria” o “schifezza”). L’effetto comico è rafforzato dai giochi di parole, ossia da quelle figure di parola (in particolare: figure di suono) che abbiamo già visto ben presenti negli spot della Vodafone. Così, grazie al gioco di parole “furgone / furore” Bonolis può prendere in giro il cinese con l’espressione “da ‘a Cina cor furgone”, che è una parafrasi di “Dalla Cina con furore”, titolo del famoso film di Lo Wei del 1972 col grande Bruce Lee nel ruolo di Chen. In questo caso il gioco di parole dà luogo a quella che Medici (1973: 131) e Sergio (2004: 219-223) definirebbero “criptocitazione”, procedimento ricorrente nella pubblicità e consistente nel citare in maniera modificata (e dunque parzialmente occultata) frasi celebri o titoli di libri, film, canzoni e via andare. Un altro gioco di parole è quello costruito su “terra” e “Cina”, reinterpretati come “Terracina” nella gag che conclude la scenetta.
Nel complesso ci sembra che lo spot faccia leva sul pathos degli spettatori in maniera forse anche discutibile per certi aspetti, facendo l’occhiolino a un certo modo di considerare gli stranieri da parte degli italiani. Il cinese, infatti, non solo è presentato come un personaggio caricaturale e ridicolo nel modo di parlare, ma è anche un imbroglione che cerca di contraffare malamente un buon prodotto italiano e di rifilare la sua fregatura a due nostri connazionali che non si lasciano raggirare e, anzi, riaffermano la qualità e la superiorità del vero prodotto nostrano, il quale ha la virtù taumaturgica di italianizzare (anzi, di romanizzare) istantaneamente il cinese. In un’epoca in cui si avverte nel nostro Paese la sindrome di essere invasi dai cinesi e di essere sommersi dai loro prodotti, lo spot propone una sorta di rivalsa atta ad esorcizzare questi timori diffusi in larga parte del pubblico (non è il cinese a prevalere col suo caffè contraffatto, ma è lui ad essere conquistato dal vero caffè italiano), sfruttando taluni luoghi comuni che inducono molti cittadini a considerare gli immigrati (e i cinesi in particolare) in modo riduttivo e superficiale.
2.2. Lo spot con l’americano
Anche in un altro spot compare come personaggio secondario uno straniero rappresentato in modo caricaturale: si tratta stavolta di un americano, con tanto di cappello da cowboy in testa. Egli parla in italiano, ma con un marcato accento americano e con una grammatica molto semplificata. Appena arrivato in paradiso, si rivolge a San Pietro con una frase priva di verbo e di articoli: “Oh, ciao, Pietro, io grande progetto per questo tuo paradiso…”. Le sue intenzioni sono da dominatore, giacché vuole costruire alberghi e casinò in paradiso, ma riceve il diniego di Pietro, che lo accusa di voler trasformare il paradiso in un inferno. A questo punto l’americano prova allora ad imporre il suo caffè, contenuto in un secchio, sempre col suo italiano stentato: “Pietro, io anche portato regalo per te da America: finalmente grande caffè americano!”. Interviene però Bonolis a fermarlo subito: “Senti, ah Dallas, voi sarete pure andati sulla luna, ma il caffè lasciatecelo fa’ a noi, eh!”, e Laurenti prosegue: “Vedi, America, il caffè se deve chiamà Lavazza. Dici: perché? Perché deve esse bbono!”. Bonolis completa poi così la spiegazione: “Questo è crema e gusto. Questo quando lo bevi dici: ah quanto è bbono, ah quanto è bbono! Il tuo quando lo bevi dici: ah qua…”, Laurenti: “e basta!”, Bonolis: “e basta! è acqua! che vvoi dì?”.
Anche questo episodio fa leva su alcuni aspetti del pathos del pubblico. Se, infatti, tra gli italiani sono diffusi l’esterofilia e una sorta di complesso di inferiorità verso le nazioni più potenti ed efficienti della nostra (a cominciare dall’America), vi è anche un altro lato della medaglia, giacché questo atteggiamento può tramutarsi subito nel suo contrario, ossia in un complesso di superiorità, quando il paragone tra noi e l’estero riguarda argomenti quali l’alimentazione e la gastronomia: gli americani saranno anche andati sulla luna, ma il loro caffè lungo, buono da versare in un secchio, non è nemmeno lontanamente paragonabile al nostro espresso (specialmente, è ovvio, se la marca è Lavazza). L’americano, arrivato con la presunzione del colonizzatore, è ben presto ridimensionato e deve arrendersi di fronte alla superiorità del prodotto italiano. Il suo italiano telegrafico e la sua marcata cadenza americana sottolineano la sua infondata presunzione e rivelano i suoi limiti, laddove l’italiano dalla forte coloritura romanesca dei due testimonial è la lingua dell’orgogliosa rivendicazione della superiorità del caffè italiano (come in molti altri episodi della serie, il caffè Lavazza “è bbono!”). Notiamo infine che la battuta ad effetto che conclude efficacemente lo spot è generata ancora una volta da un gioco di parole, ossia da una figura retorica di suono che sfrutta l’omofonia (o quasi omofonia) tra “ah qua(nto)” e “acqua”, con riferimento ancora una volta al carattere diluito del caffè lungo americano, così lontano dai nostri gusti e dal nostro tipico caffè ristretto.
2.3. Lo spot con l’abruzzese
Nel terzo e ultimo spot della Lavazza che prendiamo in considerazione il personaggio secondario che interagisce con i due testimonial non è uno straniero, bensì un’italiana non romana. Si tratta di una giovane donna che dalla cadenza e da certe caratteristiche della sua pronuncia potrebbe essere identificata come un’abruzzese. Alla ragazza vengono mostrate delle foto che ritraggono Bonolis e Laurenti in groppa ad un bianco cavallo alato. Bonolis commenta le foto esprimendosi in un italiano forbito e finanche poetico: “Eh, cara signorina, doveva vedere come ci libravamo nell’aere!”. La donna replica col suo schietto modo di parlare: “Schiàttete! Ma non c’avevate paura?”, subito canzonata da Bonolis, che, rivolto a Laurenti, le fa il verso: “C’aueuamo paura…”. La ragazza guarda ancora le foto e chiede: “E qui che ve stavate a ammazzà dalle risate?” e Laurenti replica: “No, lì più che altro ce stavamo a ammazzà!”, mentre Bonolis prosegue la canzonatura ripetendo l’esclamazione della ragazza: “Schiàttete!”.
In questo episodio Bonolis sfoggia la sua padronanza dell’italiano esibendosi nell’enunciato dal sapore letterario in avvio di episodio (“Doveva vedere come ci libravamo nell’aere!”). Analogamente a quanto abbiamo visto per la coppia Totti – Blasi negli spot della Vodafone, anche qui uno dei due testimonial, Laurenti, ha un repertorio linguistico limitato alla varietà regionale romana dell’italiano, mentre l’altro, Bonolis, padroneggia sia l’italiano di Roma sia l’italiano standard (fino ad arrivare, come si è notato, ad espressioni in italiano letterario), servendosene alternativamente in maniera flessibile nei dialoghi. Bonolis è palesemente romano nel suo modo di parlare, ma all’occorrenza sa superare i limiti della sua varietà regionale di italiano e, forte della sua superiore competenza linguistica, può permettersi il lusso di prendere in giro la ragazza abruzzese. Quest’ultima si trova in una posizione di svantaggio perché non solo si esprime esclusivamente nella sua varietà regionale di italiano, ma tale varietà è meno prestigiosa dell’italiano della capitale (sicché Bonolis, sia che parli in italiano sia che ricorra al romanesco, si trova comunque in posizione di superiorità rispetto a lei). Ella appare come un personaggio caricaturale per il suo accento e per una caratteristica fonologica della sua pronuncia, tipica dell’Abruzzo (e di altre aree) e avvertita come aliena a Roma: ci riferiamo alla fricativa dentale sorda che viene pronunciata come fricativa palatale sorda quando precede un’altra consonante (è ciò che avviene, ad esempio, quando la ragazza dice “stavate” o “schiàttete!”). Anche questo spot, in definitiva, fa leva, tra l’altro, su qualche aspetto discutibile del pathos del pubblico, con riferimento all’abitudine, alquanto diffusa e non proprio civile, di irridere il modo di parlare degli altri se è diverso dal proprio; nei due spot precedenti questo avveniva con degli stranieri (un cinese e un americano rispettivamente) che parlavano un italiano maccheronico, mentre qui ad essere sbeffeggiata è un’italiana che parla una varietà della nostra lingua vista come meno prestigiosa, ma in entrambi i casi le scenette pubblicitarie riflettono e contribuiscono ad alimentare nello stesso tempo un atteggiamento non proprio tollerante verso la diversità linguistica (e verso la diversità in genere).
3. Conclusioni
Sia negli spot della Vodafone che in quelli della Lavazza la parte del leone è svolta dai testimonial, sulla scorta di una tradizione che arriva ai giorni nostri partendo dai primordi della pubblicità, se è vero, come ci ricorda Vecchia (2003: 32-33), che la prima pubblicità apparve su una gazzetta francese nel 1631 e invitava a bere una certa acqua minerale perché la consumava addirittura il re in persona, che veniva così citato come una sorta di testimonial. Oggi i testimonial che vediamo apparire sugli schermi televisivi sono per lo più personaggi del mondo dello spettacolo o campioni sportivi, il cui ethos è basato sulla celebrità, sulla simpatia e sulla comicità. Nelle campagne pubblicitarie della Vodafone e della Lavazza si gioca anche la carta della romanità dei testimonial, con opportuni correttivi per non urtare la sensibilità (il pathos) di una parte dei telespettatori cui quella carta potrebbe non andare a genio. Tale romanità si esprime soprattutto attraverso il modo di parlare, che è quello tipico dell’italiano regionale della capitale, colorito e nello stesso tempo familiare e comprensibile per la generalità degli spettatori. A questa varietà di italiano non di rado si affiancano negli spot altre varietà, dialetti e lingue, sia in bocca agli stessi testimonial sia sulle labbra di personaggi secondari che cambiano di volta in volta e contribuiscono all’ideazione di episodi continuamente diversi (lo abbiamo visto in particolare negli spot della Lavazza, con i personaggi del cinese, dell’americano e della ragazza abruzzese, ma anche nello spot della Vodafone in cui Totti si cimenta con vari dialetti e lingue, nel paragrafo 1.3). In ciascuna coppia di testimonial la parlata romanesca è un limite linguistico e culturale per quello dei due che risulta più ridicolo e comico (Totti negli spot Vodafone e Laurenti negli spot Lavazza), mentre è un tratto di identità e una risorsa linguistica da usare insieme ad altre per il membro della coppia più istruito e disinvolto (la Blasi negli spot Vodafone e Bonolis negli spot Lavazza). In linea di massima, ci sembra che l’identità romana sia presentata in maniera più simpatica negli spot della Vodafone e un po’ più sbruffona in quelli della Lavazza, soprattutto laddove la parlata romana viene posta a contrasto con altri modi di esprimersi (da parte di stranieri o di italiani di altre regioni) che vengono sbeffeggiati. Nel complesso, però, entrambe le campagne pubblicitarie appaiono molto ben congegnate ed efficaci, come è dimostrato dalla loro lunga durata e dal loro successo. Per qualche studioso, come Pittèri (2006: 204), il gradimento notevole che questi spot trovano presso il pubblico potrebbe risultare addirittura controproducente, nel senso che essi potrebbero essere recepiti e considerati dagli spettatori come puro intrattenimento, anche a prescindere dal prodotto pubblicizzato, che potrebbe passare in secondo piano o essere addirittura obliato. Ci sembra un’ipotesi un po’ esagerata; del resto, il fatto che grandi e importanti aziende continuino ad affidarsi per anni a tali spot è indice evidentemente della loro efficacia dal punto di vista dello stimolo all’acquisto dei prodotti pubblicizzati.
Su un piano più tecnico e di dettaglio, abbiamo visto come la caratterizzazione sia dei testimonial che dei personaggi secondari avvenga mediante pochi rapidi tratti linguistici, secondo le esigenze di scenette che durano ciascuna meno di un minuto. Così, ad esempio, la parlata romanesca di Totti si può riconoscere subito anche da una singola breve frase, in cui si concentrano tratti linguistici di tipo fonetico, grammaticale e lessicale, mentre per caratterizzare il cinese che compare nello spot della Lavazza che abbiamo commentato nel paragrafo 2.1 basta addirittura una singola caratteristica della pronuncia (la r resa come l), che fa scattare subito nella mente del telespettatore il cliché del cinese che parla l’italiano storpiandolo alla sua maniera. I personaggi caricaturali e stereotipati, abbozzati ciascuno secondo poche ma vistose caratteristiche del modo di parlare, costituiscono un’importante risorsa per generare quelle continue variazioni sul tema che rendono possibili le lunghe serie degli spot a episodi. Così come risultano fondamentali da questo punto di vista le figure retoriche di suono (i giochi di parole come le paronomasie, i calembour e simili), che possono essere utilizzate all’infinito per inventare battute spiritose sempre nuove. Ne abbiamo visto diversi esempi nei vari spot da noi analizzati in questo articolo e, trattandosi di figure retoriche ad alto contenuto linguistico, esse ci hanno confermato la necessità e l’utilità di un’analisi integrata degli spot a episodi che sia, appunto, retorica e linguistica nel contempo.
Speriamo, in conclusione, di aver mostrato almeno alcuni degli aspetti che compongono la grande complessità che si cela sotto l’apparente banalità di quelle divertenti scenette pubblicitarie che quotidianamente ci fanno sorridere quando le guardiamo distrattamente in televisione, magari mentre stiamo pranzando o siamo impegnati in altre attività. Ognuno di quegli spot così brevi richiede evidentemente un lungo lavoro di ideazione e di preparazione che deve tenere conto di tanti fattori diversi e valutare bene ogni scelta, anche per quanto concerne quegli aspetti retorici e linguistici che da parte nostra abbiamo cercato di individuare e di illustrare.
Bibliografia
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Grasso A., Scaglioni M. (2003), Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società, Milano, Garzanti.
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Testa A. (2004), La pubblicità, Bologna, Il Mulino.
Vecchia M. (2003), Hapù. Manuale di tecnica della comunicazione pubblicitaria, Milano, Lupetti.
Giorgia Croce
Università degli Studi Roma Tre
E-mail: [email protected]
Donato Cerbasi
Università degli Studi Roma Tre
E-mail: [email protected]
Abstract
In this article we analyse from the rhetoric and linguistic point of view some spots belonging to the television advertising campaigns of a famous Italian coffee brand (Lavazza) and of a multinational mobile phone company (Vodafone). As regards the rhetoric analysis, we try to describe some characteristics of the protagonists of the spots (i.e. of the testimonials) that constitute their ethos, i.e. their credibility and personal appeal towards the audience. We consider also the relationships between the testimonials and the emotions and the psychology (i.e. the pathos) of the audience. At a more detailed level, we pay attention to the figures of speech which are typically used in the spots (mainly word games such as paronomasia, calembour and the like). As regards the linguistic analysis, we focus attention on the way of speaking of the testimonials and of the secondary characters and make some sociolinguistic considerations about the language varieties used (mainly the variety of Italian spoken in Rome, but sometimes together with other Italian varieties and even foreign languages). At a more detailed level, we describe some phonetic, phonological, grammatical and lexical phenomena which characterize the way of speaking of testimonials and of minor characters.
Introduzione
Questo articolo è il frutto della sintesi rielaborata dell’omonima tesi di laurea triennale in “Scienze della comunicazione”, discussa con successo da Giorgia Croce presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi Roma Tre il 5 maggio 2011. Del presente scritto l’introduzione è di Donato Cerbasi mentre il resto del testo è di Giorgia Croce.
L’oggetto del nostro studio è costituito da un tipo di pubblicità televisiva ben noto al pubblico del piccolo schermo, ossia dagli spot a episodi. Tali spot sono caratterizzati dal fatto che presentano alcuni aspetti di fondo costanti e ripetitivi, su cui si innestano variazioni sul tema che possono essere escogitate in maniera virtualmente infinita. Ciò consente di proporre agli spettatori una pubblicità che da un lato resta ben identificabile e riconoscibile e dall’altro non stanca e non annoia, suscitando anzi nel pubblico la curiosità e l’attesa di sempre nuove trovate ed invenzioni originate partendo dalle medesime costanti di base. Gli aspetti che si ripetono possono essere, oltre al prodotto, i personaggi primari (di solito i testimonial del prodotto stesso), una certa ambientazione, un determinato contesto spazio-temporale, uno slogan, mentre le variazioni possono essere rese possibili dall’introduzione di personaggi secondari di volta in volta diversi, da mini-trame continuamente rinnovate e da gag e battute di spirito generabili all’infinito. In questo modo la pubblicità a episodi diverte, attrae, intrattiene e riesce a ritagliarsi un vero e proprio appuntamento quotidiano col pubblico dei consumatori, sfruttando, su scala ridotta, le stesse logiche delle fiction televisive a episodi. Non è più una novità, del resto, il fatto che la pubblicità tenda ad imitare determinati generi televisivi o addirittura a configurarsi essa stessa sempre più come un vero e proprio genere televisivo, come fanno autorevolmente notare Grasso e Scaglioni (2003: 250). Anche per Arcangeli (2008: 56) la pubblicità a episodi, costituita da “set di storielle recitate dai medesimi personaggi in episodi in sé conclusi”, è un formato assai adatto alla televisione perché si ispira alla serialità di molti telefilm, dunque a un modello già ben presente e familiare alla mente dello spettatore.
Tra le serie di spot a episodi trasmesse negli ultimi anni dai canali televisivi nazionali, abbiamo scelto di soffermare la nostra attenzione su quella della compagnia telefonica Vodafone (col famoso calciatore Francesco Totti e sua moglie Ilary Blasi nel ruolo di testimonial) e su quella del caffè Lavazza (che ha come protagonisti due famosi personaggi del mondo dello spettacolo quali Paolo Bonolis e Luca Laurenti). Il nostro intento è quello di concentrarci sulle risorse di tipo retorico e linguistico che vengono più utilizzate in questo tipo di pubblicità e che consentono, tra l’altro, quelle continue variazioni sul tema che ne costituiscono l’aspetto più caratteristico. Proponendo come esempi alcuni episodi da noi scelti da entrambe le serie (Vodafone e Lavazza), cercheremo di mostrare come possa essere interessante e proficuo applicare a questi spot gli strumenti d’analisi della retorica e della linguistica, sia in senso lato che in senso stretto. Dal punto di vista della retorica in senso più generale faremo riferimento soprattutto al ruolo dei testimonial e agli aspetti di ethos e pathos che vengono messi in gioco, mentre per quanto riguarda l’analisi retorica in senso più stretto e tecnico ci concentreremo sulle figure retoriche che vengono tipicamente utilizzate in questo tipo di pubblicità (alludiamo alle figure di parola, in particolare alle figure di suono come le paronomasie e i calembour). Per quanto attiene alle considerazioni linguistiche più generali, commenteremo alcuni aspetti di sociologia del linguaggio che emergono negli spot, mentre da un punto di vista linguistico più tecnico menzioneremo precisi fenomeni di ordine fonetico/fonologico, grammaticale e lessicale che contribuiscono a realizzare gli effetti che gli spot si propongono di ottenere. Come si vedrà, entrambe le analisi, quella retorica e quella linguistica, si combinano e si incrociano e permettono di porre in risalto la notevole complessità che si nasconde sotto l’aspetto apparentemente banale di questi divertenti mini-episodi pubblicitari.
1. Totti e la Blasi negli spot Vodafone
Gli spot della Vodafone ci presentano i due testimonial, Francesco Totti e sua moglie Ilary Blasi, in un ambiente domestico, di solito in salotto o in camera da letto. L’ambiente domestico conferisce un senso di familiarità e di quotidianità che facilita l’identificazione del consumatore e spettatore con la coppia di testimonial. Assistendo alle scenette di volta in volta trasmesse, è un po’ come se lo spettatore potesse accedere in casa della famiglia Totti e curiosare nella vita privata della coppia; il grande campione di calcio e la famosa donna di spettacolo appaiono come “umanizzati”, cioè più vicini alla realtà quotidiana dello spettatore medio, e dunque più persuasivi nell’indurre chi li guarda a fidarsi dei prodotti e dei servizi proposti da Vodafone. Da un lato i due testimonial possono fare leva sulla propria grande notorietà e sul prestigio ottenuto grazie ai propri successi nei rispettivi ambiti professionali, dall’altro non appaiono come due divi irraggiungibili e avulsi dalla vita normale, ma come due persone alle prese con prodotti e servizi che pressoché tutti al giorno d’oggi devono scegliere, acquistare e utilizzare. Dal punto di vista della retorica classica, potremmo dire che i testimonial pubblicitari sono un po’ come degli oratori che cerchino di persuadere un pubblico facendo leva soprattutto su aspetti emotivi, ossia sull’ethos e sul pathos, che per Reboul (1996: 22-23) sono rispettivamente “il carattere che deve assumere l’oratore per accattivarsi l’attenzione e guadagnarsi la fiducia dell’uditorio” e “le tendenze, i desideri, le emozioni dell’uditorio, sui quali può far leva l’oratore”. Nella fattispecie, Totti e sua moglie assumono il carattere accattivante di personaggi celebri, di successo e nello stesso tempo familiari e alla mano, e fanno leva su aspetti emozionali del pubblico quali il desiderio di identificazione e il bisogno di essere consigliati da qualcuno che ispiri fiducia e simpatia. Certo, gli oratori antichi parlavano davanti ad un uditorio presente fisicamente in una piazza, mentre i testimonial odierni appaiono in scenette registrate che gli spettatori guardano in televisione ognuno nel proprio appartamento, ma taluni aspetti e processi della psiche umana e della sfera emotiva restano fondamentalmente costanti e, mutatis mutandis, tornano in gioco anche nell’era dei mass media, tanto più in un ambito come quello pubblicitario, dove i fattori emotivi sono decisivi nell’opera di persuasione del pubblico, come fa notare, tra gli altri, Testa (2004: 34).
Francesco Totti si presenta nelle scenette come un ragazzone tutto muscoli ma limitato dal punto di vista culturale e linguistico. Egli parla con marcata cadenza romanesca, ossia si esprime nell’italiano regionale di Roma, risulta comico quando tenta di esprimersi diversamente e ha difficoltà a comprendere i termini tecnici e gli anglicismi tipici del settore della telefonia: capisce sempre una cosa per l’altra e così in ogni spot si assiste a qualche nuova gag. Il celebre campione di calcio, utilizzando abilmente una grande risorsa retorica quale l’autoironia, riesce ad apparire simpatico anche allo spettatore non romano e/o non romanista, che gli sarebbe potenzialmente ostile (ossia potrebbe avere un pathos non in sintonia con l’asso romanista). In un Paese come l’Italia, contrassegnato da campanilismi e regionalismi e da irriducibili rivalità calcistiche, un personaggio così fortemente caratterizzato sia dal punto di vista sportivo che da quello linguistico potrebbe risultare controproducente come testimonial in una campagna pubblicitaria a livello nazionale, ma evidentemente non è così, grazie proprio all’autoironia, che stempera l’eventuale antipatia altrui, e grazie anche al fatto che Totti, oltre ad essere una bandiera della Roma, è stato a lungo anche un calciatore della Nazionale. Quanto all’autoironia, del resto, Totti ne aveva dato già prova nel 2003 con il libro uscito da Mondadori e intitolato significativamente “Tutte le barzellette su Totti (raccolte da me)”. Ma forse ancora più decisiva negli spot è la presenza accanto a lui della deliziosa moglie, da cui egli si lascia bonariamente correggere e rimproverare dopo ogni strafalcione linguistico in cui incorre. Ilary Blasi, che può piacere alla generalità degli spettatori senza distinzioni regionali o di tifoseria, riequilibra la situazione e anche dal punto di vista linguistico svolge un ruolo essenziale nella dinamica degli spot: anche il suo modo di parlare, infatti, non è esente da tratti romaneschi, ma a differenza di suo marito ella sa esprimersi anche in buon italiano e comprende agevolmente i termini tecnici, cavandosela per di più egregiamente anche con le parole e le espressioni straniere. In fondo Totti e la Blasi, con il divertente contrasto che caratterizza ogni loro apparizione nelle scenette pubblicitarie, danno anche una piccola, continua lezione sociolinguistica: non è tanto il dialetto o l’italiano regionale in sé ad essere inferiore rispetto all’italiano standard, ma è la limitatezza del proprio repertorio linguistico ad un solo idioma o addirittura ad una sola varietà di una certa lingua (nella fattispecie, l’italiano di Roma parlato da Totti negli spot) ad essere svantaggiosa rispetto all’ampiezza di un repertorio che comprenda più varietà linguistiche e più lingue e che contempli anche la capacità di servirsene in maniera di volta in volta appropriata e flessibile a seconda della situazione e degli interlocutori. Da questo punto di vista, la Blasi rappresenta negli spot un modello positivo anche dal punto di vista linguistico, e il fatto che sia una donna a svolgere questo ruolo aprirebbe un’altra interessante tematica come quella del genere sessuale nella pubblicità, che esula dal presente lavoro ma per la quale ci piace rimandare a Sinzu (2006).
1.1. Totti non conosce Internet
Nel primo spot che prendiamo in considerazione Totti esordisce affermando: “Io di internet non ci capivo molto”. A riprova di tale sua ignoranza, lo vediamo in un flashback mentre chiede alla moglie: “Che ha fatto ieri l’internet?”, dimostrando di non conoscere neanche il significato della parola, scambiata, evidentemente per deformazione professionale, con il nome della squadra di calcio dell’Inter. Subito dopo si vede Totti che si rigira tra le mani un computer portatile chiedendosi: “Non ce l’ha un titolo ‘sto libro? Non c’ha neanche ‘e paggine?”. Poi la moglie pazientemente gli mostra una chiavetta per l’accesso a internet: “Questa è la internet key”. E lui: “Chi?”. La Blasi: “La internet key!”. E lui ancora: “Ma chi?!”, guardandosi intorno, mentre la moglie scoraggiata conclude: “Se, ciao…”. Lo spot termina con Totti che esclama: “Internet per Totti” e la moglie che lo corregge: “Per tutti!”, dandogli la scatola della Vodafone in testa.
Si noti che gran parte delle gag dello spot scaturiscono da giochi di parole, ossia consistono in figure retoriche di parola, in particolare figure di suono, che permettono l’accostamento inusitato e comico di significati completamente diversi grazie alla somiglianza o all’identità fonetica dei significanti. Così, come abbiamo visto, Totti confonde “Internet” con “Inter”, la parola inglese “key” con la parola omofona italiana “chi” e il proprio cognome, “Totti”, con la parola “tutti”, generando con quest’ultima figura lo slogan che conclude efficacemente lo spot. Le figure di suono sono le figure retoriche a più alto contenuto linguistico e ricorrono spesso in questo tipo di pubblicità, perché i giochi di parole, essendo una fonte inesauribile di battute e di comicità, aiutano molto ad ideare episodi sempre nuovi, con gag ogni volta diverse. Nell’episodio Totti, come sappiamo, si esprime in un italiano con forti tratti romaneschi, sia per quanto riguarda la fonologia che la grammatica, come si può evincere anche da una sua singola frase: “Non ce l’ha un titolo ‘sto libro? Non c’ha neanche ‘e paggine?”, dove si rilevano la pronuncia “paggine” (con l’affricata palatale sonora raddoppiata in posizione intervocalica), il dimostrativo aferetico “’sto” (in luogo di “questo”) e l’articolo determinativo “’e”, parimenti aferetico (in luogo di “le”). La sua limitatezza linguistica fa il paio con la ristrettezza della sua cultura, mentre sua moglie, pur esprimendosi all’occorrenza anche alla maniera romana (dice “Se, ciao…”, usando “se” al posto di “sì” e pronunciando “ciao” con la consonante iniziale resa come una fricativa palatale anziché come un’affricata palatale), dimostra una padronanza completa e flessibile degli argomenti, della terminologia e delle lingue.
1.2. Totti a lezione di inglese
In un altro spot Totti è alle prese non con la moglie, bensì con una professoressa di inglese, la quale gli indica un tipo di telefono cellulare che è sul tavolo e cerca di insegnargli l’espressione inglese che lo designa. Ella dice: “Smart phone”, con impeccabile pronuncia inglese, ma Totti naturalmente non capisce e risponde: “Fon, quello pe’ i capelli!”, rimediando una bella bacchettata sulla mano. Anche in questo caso il perno del carattere comico dell’episodio è una figura di suono, che sfrutta stavolta la somiglianza tra la parola inglese “phone” [foun] e la parola italiana “fòn”, cioè l’asciugacapelli. Nello spot precedente si faceva leva sull’omofonia tra la parola inglese “key” e la parola italiana “chi”, mentre qui il gioco di parole è più complesso e sottile: dal punto di vista fonetico si tratta di una quasi omofonia, perché la parola inglese “phone” si differenzia dall’italiano “fòn” per la vocale, ma il modo in cui tendono a pronunciarla molti italiani che non conoscono bene l’inglese la rende più simile a “fòn”, sicché l’errore di Totti appare un po’ meno immotivato: la professoressa pronuncia la parola inglese correttamente, ma egli la intende alla maniera in cui viene pronunciata da molti italiani e la reinterpreta come “fòn”. Più in generale, ci sembra di poter affermare che lo spot corrisponde efficacemente ad alcuni aspetti del pathos di gran parte del pubblico; da un lato, infatti, lo spettatore si sente gratificato dal fatto di conoscere l’espressione “smart phone” e di essere superiore in questo al personaggio ridicolo interpretato da Totti, dall’altro, vedendo il campione a mal partito di fronte ad un’arcigna professoressa di inglese, egli può identificarsi e provare un moto di simpatia e di solidarietà, visto che siamo un Paese che non primeggia certo per la diffusione e la conoscenza dell’inglese (e delle altre lingue straniere), sicché ciascuno può vedere riflessa ironicamente nella situazione di Totti nella scenetta la propria condizione di improbabile e maldestro anglofono.
1.3. Totti alle prese con lingue e dialetti
Nel terzo spot della campagna Vodafone che andiamo a considerare Totti ce la mette davvero tutta per superare i propri limiti linguistici, esibendosi in una sorta di fuochi d’artificio di espressioni in dialetti e lingue diverse, con esiti che, se non lo accreditano certo come provetto poliglotta, risultano sicuramente spassosi. Significativamente egli esordisce dicendo: “Io non ho mai parlato così in vita mia” e si vede subito a cosa si riferisca. Prima, infatti, egli si produce in un generoso tentativo di riunificare l’Italia, esprimendosi in napoletano e subito dopo in milanese. Il napoletano lo parla al telefono con la madre, alla quale dà notizie di Ilary: “Niente meno, mammà, Ilary sta ‘na bellezza!”; l’imitazione è ben fatta, anche nei dettagli fonetici, perché la parola “bellezza”, ad esempio, viene pronunciata con la vocale finale ridotta a vocale indistinta (o, più precisamente, vocale centrale mediana), proprio come fanno i napoletani e come raramente riescono a fare i non napoletani che cercano di parlare l’idioma di Totò. Il milanese, invece, Totti lo parla con la moglie, alla quale mostra degli oggetti ornamentali da lui stesso costruiti: “Uè, Ilary, te vis che roba?”. La Blasi gli chiede: “Ma li hai fatti tu?” e lui risponde affermativamente con l’esclamazione “Ciumbia!”, che vale pressappoco “accidenti!”, “urca!” e simili. Totti, dunque, nella sua veste di testimonial, fa delle incursioni al di fuori dell’ambito della propria romanità, strizzando l’occhio a spettatori di altre regioni e di altre aree dialettali e proponendosi come personaggio nazionalpopolare. Ma non si ferma qui, perché subito dopo lo vediamo per strada alle prese con delle turiste straniere che gli chiedono: “Excuse me? Sorry? Colosseo?”; Totti le saluta in latino (“Ave!”) e sempre nella lingua di Cicerone, accompagnando l’espressione con ampi gesti, dà loro l’indicazione per raggiungere il famoso monumento: “Vicinum est, ite, ite!”. Lo spot si conclude con Totti a letto che armeggia col suo cellulare e con la moglie accanto a lui che lo invita a smettere per non consumare troppo (“Dai, basta!”), al che egli la tranquillizza uscendosene con una frase in pseudo-francese: “Ma c’est gratis avec la ricarìc!”, che fa ridere la consorte. Esprimendosi in uno stentato latino con le turiste straniere, Totti fa dell’autoironia sul proprio livello culturale, esibendo una finta ed improbabile padronanza della lingua classica, e nello stesso tempo riproduce il tipico comportamento dell’italiano a corto di risorse linguistiche che, comunicando con gli stranieri, si fa capire più che altro a gesti. La battuta in francese maccheronico che chiude lo spot, poi, suggella l’autoironia sul proprio plurilinguismo velleitario, che può essere assunta dagli spettatori anche come autoironia collettiva sulla scarsa conoscenza delle lingue straniere da parte di tanti cittadini.
2. Bonolis e Laurenti testimonial della Lavazza
I testimonial del caffè Lavazza sono Paolo Bonolis, conduttore di trasmissioni televisive di grande successo, e la sua spalla storica Luca Laurenti. Gli spot sono ambientati in uno scenario paradisiaco stereotipato, con uno sfondo chiaro dove nuvole bianche risaltano su un bel cielo azzurro. Questo scenario costantemente riproposto costituisce l’identità visiva della campagna pubblicitaria e facilita il riconoscimento degli spot da parte dello spettatore. Le scenette non hanno luogo in un ambiente domestico, come nel caso degli spot della Vodafone, ma in un paesaggio irreale che tuttavia è familiare all’immaginario dello spettatore, che è abituato a figurarsi il paradiso come una dimensione celestiale e luminosa. In tale dimensione Bonolis e Laurenti, spesso insieme anche al personaggio San Pietro, conversano amabilmente standosene seduti tra le nuvole e suggellano la propria beatitudine sorbendo una bella tazzina di caffè espresso. Tutti e tre i protagonisti sono vestiti di bianco e naturalmente San Pietro ha anche una lunga barba bianca. Sia Bonolis che Laurenti parlano con marcati tratti romaneschi, ma è Laurenti a fare la parte di colui che fraintende le parole, facendo così scaturire le gag ogni volta diverse che rendono possibile la varietà degli spot. Molto importanti per l’ideazione di spot sempre diversi sono poi i personaggi secondari, che cambiano di volta in volta e sono caratterizzati, come vedremo, in modi differenti anche dal punto di vista linguistico. Come nel caso della coppia Totti – Blasi negli spot della Vodafone, anche per quanto riguarda i due testimonial del caffè Lavazza la loro identità spiccatamente romana non inficia la buona riuscita della campagna pubblicitaria su scala nazionale. La comprensione delle battute che recitano non risulta difficoltosa, perché l’italiano regionale di Roma è massicciamente presente nel cinema del nostro Paese dalla stagione del neorealismo fino ai nostri giorni, come ricorda Rossi (2006: 189), e anche in tanti programmi televisivi trasmessi da canali nazionali (compresi gli stessi programmi, molto seguiti, condotti proprio da Bonolis e Laurenti), sicché quella varietà di italiano risulta ben familiare ai telespettatori di tutte le regioni. Certo, comprensibilità a parte, la parlata romanesca potrebbe risultare antipatica e sgradita a una parte del pubblico di altre regioni, specialmente del settentrione, ma evidentemente la romanità presentata in chiave comica e autoironica ispira una simpatia che prevale su una possibile avversione preconcetta. In altri termini, i due testimonial si avvalgono di un ethos che li fa apparire come due personaggi famosi e divertenti, i quali, grazie anche ad un’ambientazione ben riuscita, presentano il caffè espresso, la bevanda più amata e popolare in assoluto in Italia, come un piacere sublime e paradisiaco. Sia il genere di prodotto che pubblicizzano sia il riferimento leggero e spiritoso alla comune tradizione cattolica (il paradiso, il regno dei cieli, San Pietro) sono cose che uniscono un po’ tutti gli italiani e contribuiscono a far sì che i due simpatici testimonial siano in sintonia con il pathos (dunque con i gusti e le aspettative) della generalità del pubblico. Se così non fosse, del resto, campagne pubblicitarie di questo tipo non durerebbero tanto a lungo, sfruttando in abbondanza una formula che evidentemente funziona e risulta efficace nel promuovere realmente la vendita del prodotto in questione.
2.1. Lo spot con il cinese
Gli spot più interessanti dal punto di vista linguistico sono quelli in cui i due testimonial romani veraci interagiscono con qualche personaggio secondario caratterizzato dal fatto di esprimersi in modo diverso. Un buon esempio in tal senso è l’episodio in cui compare un cinese, facilmente riconoscibile come tale grazie ai tratti fortemente stereotipati del suo abbigliamento e del suo modo di parlare. Il finto cinese (è in realtà un attore italiano travestito) parla un italiano elementare, coi verbi all’infinito e con l’omissione degli articoli, e la sua pronuncia è tipicamente contrassegnata dal fatto che la vibrante apicale viene resa come una laterale alveolare (in parole povere: pronuncia la r come l). Egli cerca di dare da bere a Bonolis e a Laurenti un finto caffè Lavazza qualità oro dicendo: “Io offlile caffè… qualità olo!”. Spruzza sul caffè contenuto nelle tazzine un colore dorato e ribadisce: “Gualda: olo!”. A questo punto Bonolis replica: “Senti un po’, da ‘a Cina cor furgone, bevitela te ‘sta zozzeria!” e gli offre a sua volta un vero caffè qualità oro. Il cinese lo beve e, come se fosse subitaneamente riconvertito sia nei gusti che nell’idioma, esclama in romanesco: “Bbono, aho!”. La scenetta si conclude con Laurenti che chiede a Bonolis: “Ma questo da che terra viene?”. Bonolis risponde: “Cina” e Laurenti fraintende: “De Terracina?”, al che Bonolis esce di scena dicendo: “Basta, due contro uno nun ce sto!”. I tratti romani sono presenti a vari livelli del sistema linguistico, come esemplificato qui di seguito: fonetico (“bbono”, col raddoppiamento della consonante iniziale e la riduzione del dittongo “uo” ad “o”; “Terracina” pronunciato “Teracina”, con la vibrante apicale scempia); morfologico (il dimostrativo aferetico “’sta” in luogo di “questa”; la preposizione articolata “cor” invece di “col”); lessicale (“zozzeria” invece di “porcheria” o “schifezza”). L’effetto comico è rafforzato dai giochi di parole, ossia da quelle figure di parola (in particolare: figure di suono) che abbiamo già visto ben presenti negli spot della Vodafone. Così, grazie al gioco di parole “furgone / furore” Bonolis può prendere in giro il cinese con l’espressione “da ‘a Cina cor furgone”, che è una parafrasi di “Dalla Cina con furore”, titolo del famoso film di Lo Wei del 1972 col grande Bruce Lee nel ruolo di Chen. In questo caso il gioco di parole dà luogo a quella che Medici (1973: 131) e Sergio (2004: 219-223) definirebbero “criptocitazione”, procedimento ricorrente nella pubblicità e consistente nel citare in maniera modificata (e dunque parzialmente occultata) frasi celebri o titoli di libri, film, canzoni e via andare. Un altro gioco di parole è quello costruito su “terra” e “Cina”, reinterpretati come “Terracina” nella gag che conclude la scenetta.
Nel complesso ci sembra che lo spot faccia leva sul pathos degli spettatori in maniera forse anche discutibile per certi aspetti, facendo l’occhiolino a un certo modo di considerare gli stranieri da parte degli italiani. Il cinese, infatti, non solo è presentato come un personaggio caricaturale e ridicolo nel modo di parlare, ma è anche un imbroglione che cerca di contraffare malamente un buon prodotto italiano e di rifilare la sua fregatura a due nostri connazionali che non si lasciano raggirare e, anzi, riaffermano la qualità e la superiorità del vero prodotto nostrano, il quale ha la virtù taumaturgica di italianizzare (anzi, di romanizzare) istantaneamente il cinese. In un’epoca in cui si avverte nel nostro Paese la sindrome di essere invasi dai cinesi e di essere sommersi dai loro prodotti, lo spot propone una sorta di rivalsa atta ad esorcizzare questi timori diffusi in larga parte del pubblico (non è il cinese a prevalere col suo caffè contraffatto, ma è lui ad essere conquistato dal vero caffè italiano), sfruttando taluni luoghi comuni che inducono molti cittadini a considerare gli immigrati (e i cinesi in particolare) in modo riduttivo e superficiale.
2.2. Lo spot con l’americano
Anche in un altro spot compare come personaggio secondario uno straniero rappresentato in modo caricaturale: si tratta stavolta di un americano, con tanto di cappello da cowboy in testa. Egli parla in italiano, ma con un marcato accento americano e con una grammatica molto semplificata. Appena arrivato in paradiso, si rivolge a San Pietro con una frase priva di verbo e di articoli: “Oh, ciao, Pietro, io grande progetto per questo tuo paradiso…”. Le sue intenzioni sono da dominatore, giacché vuole costruire alberghi e casinò in paradiso, ma riceve il diniego di Pietro, che lo accusa di voler trasformare il paradiso in un inferno. A questo punto l’americano prova allora ad imporre il suo caffè, contenuto in un secchio, sempre col suo italiano stentato: “Pietro, io anche portato regalo per te da America: finalmente grande caffè americano!”. Interviene però Bonolis a fermarlo subito: “Senti, ah Dallas, voi sarete pure andati sulla luna, ma il caffè lasciatecelo fa’ a noi, eh!”, e Laurenti prosegue: “Vedi, America, il caffè se deve chiamà Lavazza. Dici: perché? Perché deve esse bbono!”. Bonolis completa poi così la spiegazione: “Questo è crema e gusto. Questo quando lo bevi dici: ah quanto è bbono, ah quanto è bbono! Il tuo quando lo bevi dici: ah qua…”, Laurenti: “e basta!”, Bonolis: “e basta! è acqua! che vvoi dì?”.
Anche questo episodio fa leva su alcuni aspetti del pathos del pubblico. Se, infatti, tra gli italiani sono diffusi l’esterofilia e una sorta di complesso di inferiorità verso le nazioni più potenti ed efficienti della nostra (a cominciare dall’America), vi è anche un altro lato della medaglia, giacché questo atteggiamento può tramutarsi subito nel suo contrario, ossia in un complesso di superiorità, quando il paragone tra noi e l’estero riguarda argomenti quali l’alimentazione e la gastronomia: gli americani saranno anche andati sulla luna, ma il loro caffè lungo, buono da versare in un secchio, non è nemmeno lontanamente paragonabile al nostro espresso (specialmente, è ovvio, se la marca è Lavazza). L’americano, arrivato con la presunzione del colonizzatore, è ben presto ridimensionato e deve arrendersi di fronte alla superiorità del prodotto italiano. Il suo italiano telegrafico e la sua marcata cadenza americana sottolineano la sua infondata presunzione e rivelano i suoi limiti, laddove l’italiano dalla forte coloritura romanesca dei due testimonial è la lingua dell’orgogliosa rivendicazione della superiorità del caffè italiano (come in molti altri episodi della serie, il caffè Lavazza “è bbono!”). Notiamo infine che la battuta ad effetto che conclude efficacemente lo spot è generata ancora una volta da un gioco di parole, ossia da una figura retorica di suono che sfrutta l’omofonia (o quasi omofonia) tra “ah qua(nto)” e “acqua”, con riferimento ancora una volta al carattere diluito del caffè lungo americano, così lontano dai nostri gusti e dal nostro tipico caffè ristretto.
2.3. Lo spot con l’abruzzese
Nel terzo e ultimo spot della Lavazza che prendiamo in considerazione il personaggio secondario che interagisce con i due testimonial non è uno straniero, bensì un’italiana non romana. Si tratta di una giovane donna che dalla cadenza e da certe caratteristiche della sua pronuncia potrebbe essere identificata come un’abruzzese. Alla ragazza vengono mostrate delle foto che ritraggono Bonolis e Laurenti in groppa ad un bianco cavallo alato. Bonolis commenta le foto esprimendosi in un italiano forbito e finanche poetico: “Eh, cara signorina, doveva vedere come ci libravamo nell’aere!”. La donna replica col suo schietto modo di parlare: “Schiàttete! Ma non c’avevate paura?”, subito canzonata da Bonolis, che, rivolto a Laurenti, le fa il verso: “C’aueuamo paura…”. La ragazza guarda ancora le foto e chiede: “E qui che ve stavate a ammazzà dalle risate?” e Laurenti replica: “No, lì più che altro ce stavamo a ammazzà!”, mentre Bonolis prosegue la canzonatura ripetendo l’esclamazione della ragazza: “Schiàttete!”.
In questo episodio Bonolis sfoggia la sua padronanza dell’italiano esibendosi nell’enunciato dal sapore letterario in avvio di episodio (“Doveva vedere come ci libravamo nell’aere!”). Analogamente a quanto abbiamo visto per la coppia Totti – Blasi negli spot della Vodafone, anche qui uno dei due testimonial, Laurenti, ha un repertorio linguistico limitato alla varietà regionale romana dell’italiano, mentre l’altro, Bonolis, padroneggia sia l’italiano di Roma sia l’italiano standard (fino ad arrivare, come si è notato, ad espressioni in italiano letterario), servendosene alternativamente in maniera flessibile nei dialoghi. Bonolis è palesemente romano nel suo modo di parlare, ma all’occorrenza sa superare i limiti della sua varietà regionale di italiano e, forte della sua superiore competenza linguistica, può permettersi il lusso di prendere in giro la ragazza abruzzese. Quest’ultima si trova in una posizione di svantaggio perché non solo si esprime esclusivamente nella sua varietà regionale di italiano, ma tale varietà è meno prestigiosa dell’italiano della capitale (sicché Bonolis, sia che parli in italiano sia che ricorra al romanesco, si trova comunque in posizione di superiorità rispetto a lei). Ella appare come un personaggio caricaturale per il suo accento e per una caratteristica fonologica della sua pronuncia, tipica dell’Abruzzo (e di altre aree) e avvertita come aliena a Roma: ci riferiamo alla fricativa dentale sorda che viene pronunciata come fricativa palatale sorda quando precede un’altra consonante (è ciò che avviene, ad esempio, quando la ragazza dice “stavate” o “schiàttete!”). Anche questo spot, in definitiva, fa leva, tra l’altro, su qualche aspetto discutibile del pathos del pubblico, con riferimento all’abitudine, alquanto diffusa e non proprio civile, di irridere il modo di parlare degli altri se è diverso dal proprio; nei due spot precedenti questo avveniva con degli stranieri (un cinese e un americano rispettivamente) che parlavano un italiano maccheronico, mentre qui ad essere sbeffeggiata è un’italiana che parla una varietà della nostra lingua vista come meno prestigiosa, ma in entrambi i casi le scenette pubblicitarie riflettono e contribuiscono ad alimentare nello stesso tempo un atteggiamento non proprio tollerante verso la diversità linguistica (e verso la diversità in genere).
3. Conclusioni
Sia negli spot della Vodafone che in quelli della Lavazza la parte del leone è svolta dai testimonial, sulla scorta di una tradizione che arriva ai giorni nostri partendo dai primordi della pubblicità, se è vero, come ci ricorda Vecchia (2003: 32-33), che la prima pubblicità apparve su una gazzetta francese nel 1631 e invitava a bere una certa acqua minerale perché la consumava addirittura il re in persona, che veniva così citato come una sorta di testimonial. Oggi i testimonial che vediamo apparire sugli schermi televisivi sono per lo più personaggi del mondo dello spettacolo o campioni sportivi, il cui ethos è basato sulla celebrità, sulla simpatia e sulla comicità. Nelle campagne pubblicitarie della Vodafone e della Lavazza si gioca anche la carta della romanità dei testimonial, con opportuni correttivi per non urtare la sensibilità (il pathos) di una parte dei telespettatori cui quella carta potrebbe non andare a genio. Tale romanità si esprime soprattutto attraverso il modo di parlare, che è quello tipico dell’italiano regionale della capitale, colorito e nello stesso tempo familiare e comprensibile per la generalità degli spettatori. A questa varietà di italiano non di rado si affiancano negli spot altre varietà, dialetti e lingue, sia in bocca agli stessi testimonial sia sulle labbra di personaggi secondari che cambiano di volta in volta e contribuiscono all’ideazione di episodi continuamente diversi (lo abbiamo visto in particolare negli spot della Lavazza, con i personaggi del cinese, dell’americano e della ragazza abruzzese, ma anche nello spot della Vodafone in cui Totti si cimenta con vari dialetti e lingue, nel paragrafo 1.3). In ciascuna coppia di testimonial la parlata romanesca è un limite linguistico e culturale per quello dei due che risulta più ridicolo e comico (Totti negli spot Vodafone e Laurenti negli spot Lavazza), mentre è un tratto di identità e una risorsa linguistica da usare insieme ad altre per il membro della coppia più istruito e disinvolto (la Blasi negli spot Vodafone e Bonolis negli spot Lavazza). In linea di massima, ci sembra che l’identità romana sia presentata in maniera più simpatica negli spot della Vodafone e un po’ più sbruffona in quelli della Lavazza, soprattutto laddove la parlata romana viene posta a contrasto con altri modi di esprimersi (da parte di stranieri o di italiani di altre regioni) che vengono sbeffeggiati. Nel complesso, però, entrambe le campagne pubblicitarie appaiono molto ben congegnate ed efficaci, come è dimostrato dalla loro lunga durata e dal loro successo. Per qualche studioso, come Pittèri (2006: 204), il gradimento notevole che questi spot trovano presso il pubblico potrebbe risultare addirittura controproducente, nel senso che essi potrebbero essere recepiti e considerati dagli spettatori come puro intrattenimento, anche a prescindere dal prodotto pubblicizzato, che potrebbe passare in secondo piano o essere addirittura obliato. Ci sembra un’ipotesi un po’ esagerata; del resto, il fatto che grandi e importanti aziende continuino ad affidarsi per anni a tali spot è indice evidentemente della loro efficacia dal punto di vista dello stimolo all’acquisto dei prodotti pubblicizzati.
Su un piano più tecnico e di dettaglio, abbiamo visto come la caratterizzazione sia dei testimonial che dei personaggi secondari avvenga mediante pochi rapidi tratti linguistici, secondo le esigenze di scenette che durano ciascuna meno di un minuto. Così, ad esempio, la parlata romanesca di Totti si può riconoscere subito anche da una singola breve frase, in cui si concentrano tratti linguistici di tipo fonetico, grammaticale e lessicale, mentre per caratterizzare il cinese che compare nello spot della Lavazza che abbiamo commentato nel paragrafo 2.1 basta addirittura una singola caratteristica della pronuncia (la r resa come l), che fa scattare subito nella mente del telespettatore il cliché del cinese che parla l’italiano storpiandolo alla sua maniera. I personaggi caricaturali e stereotipati, abbozzati ciascuno secondo poche ma vistose caratteristiche del modo di parlare, costituiscono un’importante risorsa per generare quelle continue variazioni sul tema che rendono possibili le lunghe serie degli spot a episodi. Così come risultano fondamentali da questo punto di vista le figure retoriche di suono (i giochi di parole come le paronomasie, i calembour e simili), che possono essere utilizzate all’infinito per inventare battute spiritose sempre nuove. Ne abbiamo visto diversi esempi nei vari spot da noi analizzati in questo articolo e, trattandosi di figure retoriche ad alto contenuto linguistico, esse ci hanno confermato la necessità e l’utilità di un’analisi integrata degli spot a episodi che sia, appunto, retorica e linguistica nel contempo.
Speriamo, in conclusione, di aver mostrato almeno alcuni degli aspetti che compongono la grande complessità che si cela sotto l’apparente banalità di quelle divertenti scenette pubblicitarie che quotidianamente ci fanno sorridere quando le guardiamo distrattamente in televisione, magari mentre stiamo pranzando o siamo impegnati in altre attività. Ognuno di quegli spot così brevi richiede evidentemente un lungo lavoro di ideazione e di preparazione che deve tenere conto di tanti fattori diversi e valutare bene ogni scelta, anche per quanto concerne quegli aspetti retorici e linguistici che da parte nostra abbiamo cercato di individuare e di illustrare.
Bibliografia
Arcangeli M. (2008), Il linguaggio pubblicitario, Roma, Carocci.
Grasso A., Scaglioni M. (2003), Che cos’è la televisione. Il piccolo schermo fra cultura e società, Milano, Garzanti.
Medici M. (1973), Pubblicità lingua viva, Milano, Pan.
Pittèri D. (2006), La pubblicità in Italia. Dal dopoguerra a oggi, Roma – Bari, Laterza.
Reboul O. (1996), Introduzione alla retorica, Bologna, Il Mulino.
Rossi F. (2006), Il linguaggio cinematografico, Roma, Aracne.
Sergio G. (2004), Il linguaggio della pubblicità radiofonica, Roma, Aracne.
Sinzu E. (2006), Il gender nella pubblicità audiovisiva contemporanea, tesi di laurea, Università degli Studi di Cagliari.
Testa A. (2004), La pubblicità, Bologna, Il Mulino.
Vecchia M. (2003), Hapù. Manuale di tecnica della comunicazione pubblicitaria, Milano, Lupetti.